venerdì 9 dicembre 2011

IL PRANZO È SERVITO


Da “101 Storie su Milano che non ti hanno mai raccontato” di Francesca Belotti – Gian Luca Margheriti – Newton Compton Editori


Si dice che in piazzale Loreto, nella prima metà del Novecento, ci fosse un ristorante che proponeva ai propri clienti una cucina molto particolare. Sembra infatti che gli chef del locale preparassero pietanze a base di carne umana, servendo i piatti a un’ignara clientela. Difficile dire se si tratti di cronaca o leggenda, ma a scanso di equivoci, di seguito vi proporremo solo ricette che appartengono alla cucina meneghina più tradizionale.
Quale ingrediente o piatto vi viene in mente pensando a Milano? Ugo Foscolo associava il capoluogo lombardo ai derivati del latte, dato che si divertiva a chiamare la città “Paneropoli”(panera in dialetto milanese vuol dire “panna”). A onor del vero va detto che la sua era una ripicca: non gli erano andate giù le risate del pubblico della Scala durante la rappresentazione dell’Aiace, dopo l’esclamazione “oh, Salamini” rivolta da un personaggio della tragedia ai reduci della battaglia di Salamina.
Per smentire il poeta, come prima ricetta vi proponiamo quella della busecca.[] Sembra che in passato i milanesi ne facessero un largo consumo tanto da meritarsi l’appellativo di “busecconi”.
Prendete salsiccia, piedini e cotenne, rigorosamente di maiale, aggiungeteci della verza e otterrete la milanesissima casoeula, così come si narra abbiano fatto alcune massaie  che per non perder troppo tempo tra i fornelli decisero di fare di zuppa, verdura e carne un solo piatto ricco e sostanzioso. La tecnica delle signore fu presto adottata da un altro milanese che per consumare velocemente il suo pasto decise di unire il riso agli ossibuchi, creando così il risotto con l’ossobuco, carne infarinata, rosolata nel burro e nel vino. Ma a darle quel qualcosa in più è la gremolada, un condimento a base di scorza di limone, prezzemolo e aglio tritati finemente e poi bagnati da poche gocce d’olio, che va adagiata sugli ossibuchi.
A proposito di riso, non si può certo non menzionare uno dei piatti milanesi per eccellenza, ovvero il risotto con lo zafferano, conosciuto anche come risòtt giald. Il piatto, semplice da cucinare, si presenta in diverse versioni oltre a quella tradizionale; accompagnato con funghi (meglio se porcini), salsiccia, scampi o frutti di mare. Ma ricordatevi ciò che diceva l’affermato botanico e naturalista Plinio il Vecchio: “Non vi è cosa che si falsifichi quanto lo zafferano”. Per riprodurre il suo colore, infatti, si possono usare coloranti chimici sintetici o naturali e altri aromi più economici, che non hanno però il suo gusto inconfondibile.
Oltre al riso esistono anche gli asparagi alla milanese, con tanto di uova al tegamino, da preparare sciogliendo il burro in una padella e disponendo le uova senza romperle, perché si cuociano all’occhio di bue. A riguardo ecco un piccolo aneddoto: in visita a Milano, Giulio Cesare fu invitato a pranzo da tal Velerio Leonte, che, tra una portata e l’altra, fece servire al valoroso condottiero un piatto di asparagi lessati e conditi con abbondante burro, da accompagnare con le tipiche uova in cereghin. L’ospite romano si sforzò non poco di mangiare la pietanza imburrata, abituato com’era all’olio d’oliva, dato che il burro lo usava sì, ma come unguento.
E ora veniamo alla cotoletta alla milanese che deve il suo nome alla costola, dato che nella ricetta originale è previsto l’uso di costate di vitello dello spessore di circa tre centimetri. Resta però un dubbio: la cotoletta è alla milanese o alla viennese? Un austriaco DOC come il maresciallo Johann Joseph Radetzky avrebbe rivendicato la paternità meneghina della cotoletta (strano a dirsi), mentre sembra che l’usanza di servire la cotoletta con una fettina di limone appartenga effettivamente agli austriaci.
L’ultimo dell’anno, poi, non possono mancare in tavola zampone e lenticchie: un piatto portafortuna, almeno stando alla credenza secondo cui le lenticchie rappresentano tante monetine e lo zampone promette un guadagno assicurato, dato che in dialetto si chiama raspatutt (raspatutto), perché è carne di maiale, un animale onnivoro che arraffa qualsiasi cosa.
Per quanto riguarda i dolci invece, è d’obbligo assaggiare le “ossa dei morti”, ossia biscotti a base di mandorla tostate, con un delicato retrogusto di cannella, che devono il loro nome al fatto che erano confezionati in occasione della festività dei morti.
E ora veniamo a qualche vecchia usanza: sapevate che inizialmente in osteria si poteva ordinare solo da bere? Ma quando gli osti hanno intuito che servendo anche da mangiare sarebbero aumentate le ordinazioni di vino e altre bevande, si son improvvisati cuochi, e chissà che i piatti che servivano non fossero conditi ad arte per far aumentare la sete ai clienti. Attenzione ai guadagni facili, però, perché l’oste della Pattona, un tempo l’unica osteria di piazza Mercanti (così chiamata perché nei mesi invernali il suo ingresso era protetto da una pesante tenda detta appunto patta) fu arrestato per aver aumentato il costo di una porzione di polenta che da due soldi e mezzo era passato a tre. L’oste si disse pentito, ma poteva essere colpa sua se la statua di sant’Ambrogio, collocata nella torre del palazzo dei Giurenconsulti, ha tre dita sollevate? Rimanendo nei paraggi, se si decideva di aprire un locale, era meglio essere dotati di un buon udito, in modo da sentire i rintocchi della campana del Cordusio, posta sulla torretta del palazzo dei Giurenconsulti. La campana in questione infatti regolava l’apertura e la chiusura di osterie e trattorie, e guai a servire i clienti dopo l’ultimo rintocco.

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