giovedì 29 dicembre 2011

“L’ABBRUSTULATURO” di Eduardo de Filippo


Da “Le ore del caffè” di Mariarosa Schiaffino – Casa Editrice IdeaLibri

"L'abbrustulaturo" disegno di Edoardo de Filippo
Intorno al 1908 abitavamo in Vico Ascensione a Chiaia, numero 13. In questa traversa di via dei Mille, come del resto in tante strade e vicoli di Napoli, nelle prime ore del mattino si celebrava un rito particolare, indispensabile per le famiglie meno abbienti e per i “patiti”, si abbrustoliva il caffè, giacché a comprarlo crudo si risparmiava e tostarlo in casa costava solo pazienza e abilità.
Ogni una o due settimane si preparava la quantità necessaria, a seconda del bisogno, delle finanze e della golosità di ciascuna famiglia. E poiché, ovviamente, le date della “cerimonia” non coincidevano, ogni giorno c’erano qualche donna o qualche “nonno”, appollaiati sui terrazzi o seduti in balcone a girare la manovella dell’”abbrustulaturo”.
Prima di andare avanti sarà bene descrivere questo arnese che oramai per la maggioranza dei Napoletani è diventato soltanto un ricordo.
Era un cilindro lungo dai 30 ai 60 centimetri, con circa 15 centimetri di diametro; da un lato aveva un lungo perno, dall’altro una manovella; i chicchi crudi si introducevano nel cilindro attraverso uno sportellino centrale che veniva poi ben chiuso per mezzo di un gancetto.  Il fornello consisteva in una “scatola” rettangolare su piedini, anch’essa di metallo. Sulla griglia del fondo si accendeva la carbonella; al centro d’una parete laterale c’era un buco per alloggiare il perno, di fronte a questa parete si trovava un vuoto nel quale inserire la manovella. Fatto ciò, si poteva dare inizio alla tostatura.
Una piccola parentesi: perché ho parlato di terrazze e balconi? Perché, durante la cottura, i chicchi di caffè, molto oleosi, sprigionavano un fumo intenso che sarebbe risultato insopportabile in un ambiente chiuso, mentre fuori non dava alcun fastidio, anzi, diffondendosi per l’aria e trasportato dal vento, costituiva per tutto il vicinato una vera gioia.
Girando la manovella, i chicchi si rovesciavano su se stessi, cadendo e ricadendo sulla parete infuocata del cilindro, fino a raggiungere il giusto punto di cottura. Ogni tanto si toglieva l’”abbrustulaturo” dal suo appoggio e lo si scuoteva un paio di volte per sentire il rumore degli acini e calcolarne il peso poiché essi diventavano sempre più leggeri man mano che cuocevano. Ma non basta … Bisognava controllare anche il colore dei chicchi, aprendo ogni tanto lo sportellino centrale e quando erano diventati color “manto di monaco” si toglieva immediatamente dal fuoco il cilindro e si versavano gli acini bollenti su un largo vassoio o su un capace piatto di terracotta, allargandoli ben bene con un mestolo di legno e continuando ad agitarli finché si raffreddano. Ad ogni colpo di mestolo si alzavano nuvole di fumo che spandevano intorno un aroma delizioso, penetrante, irresistibile.
Anche io, che poltrivo a letto cercando di ritardare il momento in cui avrei dovuto alzarmi per andare a scuola, non appena questo seducente profumo mi arrivava al naso (e arrivava perfino quando le finestre erano chiuse!), saltavo giù dal letto, pieno di energia e felice di iniziare una nuova giornata. Ecco che, prima ancora di avere ottenuto il permesso di berlo, il caffè mi faceva da sveglia ed era diventato il simbolo del giorno che inizia …
L'odore del caffè appena tostato, uno degli odori più stupendi che esista, mi seguiva mentre mi lavavo, mi vestivo, mangiavo con appetito "'a zupp' 'e latte", e mentre scendevo le scale ... Arrivato in strada l'odore si sentiva un po' meno perché il fumo tende più a salire che a scendere, ma ne ero egualmente consapevole attraverso le voci che ascoltavo. Che allegria mi davano quei commenti che scoppiettavano da una finestra all'altra, lungo tutto il tragitto da casa mia alla scuola! "Ah, ma ch'addòre 'e cafè, che bellezza!", esclamavano in coro dei venditori ambulanti.
Una donnina filiforme chiedeva a una donna con un gran "tuppo" di capelli neri: "Signò, l'avete fatto il caffè, voi?", e l'altra rispondeva: "Comme no! Noi lo facciamo due volta alla settimana. Teniamo 'o nonno che non lo contenta nisciuno e accussì lo fa lui personalmente". Dal balcone di un appartamento signorile un cameriere vestito da vespa (giacca a righe nere e gialle) e basette nere laccate sulle tempie, a una squisita servetta dell'appartamento accanto: "Tra poco vi debbo lasciare, si deve ritirare il caffè". E lei: "Andate, andate ... Io 'o cafè 'o faccio di sabato, ma è sempre una grande responsabilità. Ciro mio: basta che ti sìdistrai nu mumento, s'abbruccia 'o ccafè e s'appuzzolentisce 'a casa!"
Poi, spesso, prima d'essere inghiottito dal portone della scuola, a San Pasquale a Chiaia, mi arrivava all'orecchio l'"Ahhh..!" di un solachianiello di fronte. Sorbiva una tazzina di caffè prima d'iniziare il lavoro e quell'"Ahhh..!" era di un'eloquenza eccezionale: vi trasparivano piacere, soddisfazione, sensualità, appagamento, golosità, addirittura sorpresa e rapimento... Tutte cose che poi, da grande, avrei provato anche io, ma che allora, a otto anni, mi facevano venir voglia di ridere...
E fu un bel ridere quando raggiunsi, assieme ai 29 anni, il vero, grosso successo con Sik Sik, l'artefice magico. Tutti ricordano credo, l'invito di un prestigiatore: "Se c'è quacche persona del pubbrico ca vuole venire sul palcoscenico, signori ...", e la famosa battuta del "palo": "Venche io!" Nel 1929 queste due paroline diventarono una vera e propria frenesia. La gente le usava dappertutto, a proposito e a sproposito: per strada, gridandosele da un marciapiedi all'altro, nei locali pubblici, nelle case, sulle spiagge alla moda. Un giovane adocchiava una bella ragazza? Subito esclamava: "Venche io!" Se un ghiottone vedeva arrivare in tavola un dolce tentatore, diceva: "Venche io!".
Persino nei bar e nei ristoranti i cameriere, alla chiamata dei clienti, s'avviavano a passo di bersagliere strillando: "Venche io!"
Tanta popolarità finì per attirare l'attenzione del Bar delle Antille, locale famoso a quell'epoca per l'eccellenza del suo "espresso". Don Ciro mi chiese di poter esporre in vetrina una foto di Sik-Sik, possibilmente con l'aggiunta di una frase che reclamizzasse il suo caffè. Lo accontentai, e sotto l'ingrandimento del mio personaggio in posa di prestigiatore scrissi:
"P' 'o ccafè delle Antille pure Dio, si sent' 'addore, dice: "Venche io!"
Davanti alla vetrina, dalla mattina alla sera, sostavano gruppetti di persone che commentavano divertiti i due versi, mentre gli affari del Bar andavano a gonfie vele. Il padrone esultava, ma purtroppo la sua gioia durò solo tre o quattro giorni... Una mattina il messo della Curia arrivò e, accusando "Quel miserabile pagliaccio", "Quel guitto irrispettoso" d'aver osato nominare Dio invano, ingiunse al proprietario del locale di togliere dalla vetrina la foto e i due versi blasfemi.
A dire il vero non mi sentii affatto colpevole di irriverenza: pure Di Giacomo aveva fatto scendere il Padreterno e San Pietro fino a Piazza Dante, li aveva fatti entrare in un Caffè, orinando al cameriere: "Favoriteci due mezze limonate".. Perché il limone sì e il caffè no? Vattelapesca!

Roma, febbraio 1983

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